Perché i film da video game funzionano (a volte)
Il videogame in sé non conta nulla. È solo questione di tempo prima che facciano un film su "Tralalero Tralalà"
Un film Minecraft sta avendo un grandissimo successo in tutto il mondo, a livelli record persino per gli standard di molti blockbuster recenti; senza dubbio è al momento il miglior risultato di sempre per un film tratto da un videogioco, visto che ha anche superato il film su Super Mario Bros. Ma perché ha funzionato così bene? Forse perché è l’adattamento di un’opera videoludica così famosa e amata? Nì. Nel senso che sì, la notorietà del gioco ha influito, ma probabilmente non basta a definire la portata di questo fenomeno.
Se, come afferma Indiewire, gli incassi di Minecraft dimostrano che la chiave per portare al cinema gli spettatori più giovani e occasionali è “parlare la loro lingua” e conoscere i loro mondi di riferimento, ciò è vero anche perché Un film Minecraft non è un semplice e tipico film tratto da un videogioco: il modo in cui prende vita – e vigore al botteghino – scaturisce da tutti quegli elementi che non hanno tanto a che fare con il gioco in sé, ma con l’affezione dei suoi seguaci e con la loro capacità di creargli un senso anche al di fuori dei pixel dello schermo. Se notiamo bene, i cine-game (bisognerebbe trovargli finalmente un nome definitivo) di stampo più classico, ossia quelli basati su giochi con una struttura lineare e una narrazione complessa, non hanno sempre convinto il pubblico.
Ragioniamoci: si è parlato molto del fatto che dopo tanti anni che se ne fanno, questo tipo di film sta iniziando davvero ad andare bene nelle sale; ma quali esempi facciamo ogni volta per suffragare questa tesi? Citiamo Super Mario Bros, per esempio, che però ha alla radice un videogioco platform, con una trama sì, ma risicata fino all’osso e puramente strumentale al gameplay: prendi il fungo-salta sui mattoni-vai da un punto A ad un punto B-salva la principessa nella torre. Sappiamo che esiste la trama o grazie a piccoli inserti esplicativi, o per la presenza di spiegazioni paratestuali fornite a posteriori, magari dal fandom o comunque costruite al di fuori delle meccaniche di gioco. Insomma, l’ultima cosa che potremmo dire giocando a un Super Mario è “sembra un film!”, espressione invece più che comune quando ci avviciniamo a un gioco più recente e, per l’appunto, “cinematografico”.
Un altro esempio: Five Nights at Freddy’s è stato nel 2023 il film tratto da un videogioco con il miglior incasso d’esordio di sempre, per poi essere superato dai due film già citati. Anche questo è un gioco con una trama puramente strumentale: il guardiano notturno di una pizzeria deve sopravvivere cinque notti senza essere ucciso dalle inquietanti mascotte del locale. La storia è di cornice, il senso è il gameplay da survival horror: ma anche su questo la lore, e quindi l’insieme di creepypasta, meme, trucchi di gioco e la quantità di giocatori sono sconfinate. E il film va benissimo.
E Angry Birds? Uno dei più elementari giochi per smartphone senza nessun accenno di trama, trasformato in una saga animata dalla Sony? Altro grande successo.
Ma sono soprattutto film che riescono a sedimentarsi, anche solo per poco, nell’immaginario contemporaneo, tra i più giovani, facendo effettivamente parlare di sé. Perché non ci riescono film tratti da videogiochi decisamente più cinematografici? Potrebbe sembrare la cosa più intuitiva e prevedibile, eppure film come Tomb Raider, Assassin’s Creed, Uncharted non sono tendenzialmente al centro del dibattito. Non sono sempre flop clamorosi, magari incassano pure bene, però stanno un po’ lì, se ne sente parlare poco e non generano questo entusiasmo al limite dell’insensato.
Il motivo è proprio questo: a determinare il successo di un cine-game nella fascia di pubblico tipicamente designata a questo tipo di film, non è tanto la storia che raccontano o quanto il videogioco di partenza si presti a essere simile a un film, ma quanto invece è forte quella galassia di conoscenze, curiosità e storie che appassionati e videogiocatori sono riusciti a costruire negli anni attorno all’affetto per quei titoli – meme inclusi.
Oltretutto il pubblico medio cercato da questi film è tendenzialmente meno esperto e più indulgente, cosa che permette alle produzioni di avere meno pressioni sulla scrittura del film e sulla sua effettiva qualità
Se ci pensiamo, è lo stesso meccanismo dietro al successo di Barbie, che non veniva da una storyline pregressa, ma costruiva una propria trama su una bambola, letteralmente su un marchio, cucendo addosso una narrazione che raccoglieva tutti gli spunti, i decennali discorsi teorici attorno al fenomeno e le curiosità dietro chi con quel giocattolo aveva costruito anche la propria identità. Una volta che il perimetro di interesse si sposta qui, allora si prendono strade inaspettate, che influenzano a quel punto anche i profili “istituzionali”. E gli incassi aumentano.

Una situazione sintomatica del fatto che nel nuovo ambiente mediale che si è costituito da ormai diversi anni, la narrazione non è più predominio di chi impone il film, ma è un oggetto plasmabile anche da chi lo consuma attivamente, dal basso. Una buona produzione contemporanea, oggi, deve sapere che non basta “copiare” ciò che vede negli spazi di discussione, ma che gli input dal basso possono essere una risorsa creativa cruciale – anche perché stiamo parlando di blockbuster, e quindi film che devono essere estremamente popolari.
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Il soggetto di un film di questo tipo a questo punto può essere pressoché qualsiasi cosa: perché non si dovrebbe fare un film su un prodotto del brainrot - cioè con la sottocultura umoristica di internet del nonsense? Perché non dovremmo fare un film su Skibidi Toilet o su uno squalo con delle Nike chiamato “Tralalero tralalà”? Perché non c’è una storia? No, non conta niente e soprattutto non è vero. Anche ciò che nasce come pura invenzione casuale, addirittura con l’intelligenza artificiale usata un po’ a casaccio, oggi è in grado di evolversi in maniere molteplici e inaspettate e dare vita a tantissime storie dal basso, a volte sulla soglia dell’assurdo eppure inspiegabilmente ipnotiche; quindi no, la trama non è più una scusa.
Ogni cosa è stata narrativizzata, ogni cosa sente il bisogno di avere una narrazione espansa, anche una testa parlante all’interno di un gabinetto, anche (e soprattutto) se questa narrazione avviene in quelle che non si reputerebbero le sedi “opportune”, come i forum, i reel o i commenti sotto quei reel.
Gabriele Mutatempo
Veloce veloce
È tempo di scalette chiuse per diversi festival o premi cinematografici e di annunci di vario tipo. Naturalmente oltre i film selezionati non c’è molto altro da dire in attesa che i festival o le premiazioni effettivamente si svolgano, se non che sono stati annunciati diversi premi alla carriera: Jackie Chan a Locarno, Pupi Avati ai David di Donatello, e l’ha già ricevuto Francis Ford Coppola all’American Film Institute, in compagnia di un gruppetto niente male.
E a proposito: a ottobre uscirà una graphic novel su Megalopolis.
Il cugino dello sceneggiatore di Top Gun: Maverick (si parte male), ha fatto causa alla Paramount perché sostiene di aver lavorato alla sceneggiatura del film per cinque mesi, contribuendo a scrivere importanti scene d’azione, senza però essere riconosciuto come co-autore e senza aver ricevuto quindi un compenso per questo.
Va forte fare tequila tra le celebrità, ed è per questo che Glen Powell ha voluto fare della salsa BBQ. Si scherza, in realtà è una cosa abbastanza seria.
La giuria del festival di Cannes avrà dei nomi piuttosto grossi. Quella del festival di Venezia invece sarà guidata da Alexander Payne, il regista del recente The Holdovers o Nebraska.
In un film della A24, prodotto da Ridley Scott, scritto David Kajganich (showrunner della bellissima prima stagione di The Terror, sceneggiatore di Suspiria e Bones and All), diretto da Edward Berger (Niente di nuovo sul fronte occidentale, Conclave), reciterà, infine, Brad Pitt. Mica male.
L’ultimo film di David Cronenberg era nato come una serie TV per Netflix.
Due consigli e poi ci salutiamo
Bellissima e, purtroppo, breve discussione tra il regista ungherese Béla Tarr (nostro padre) e il critico Enrico Ghezzi (nostro padre).
di Angelo Fortuna
Ubriaco d'amore di Paul Thomas Anderson (a noleggio)
Ho recuperato Punch-Drunk Love, che in italiano fa Ubriaco d'amore e no, non sono un purista dei titoli originali, ma qui siamo ai livelli di Se mi lasci ti cancello. Probabilmente Ubriaco d'amore sapeva più di Sandler e meno di chi qualche anno prima aveva partorito un drammone come Magnolia. Solo che quello di Punch-Drunk Love è proprio Adam Sandler secondo Paul Thomas Anderson, e quella del regista è una volontà chiara: quel bamboccione non lo vuole ubriacare – lo fanno tutti i suoi film precedenti e pure quelli successivi – lo vuole stordire.
Piccolezze, forse, ma sta di fatto che mai attentato all'icasticità di un titolo fu più doloroso, perché quello di Anderson è un Punch-Drunk Movie (e non altro), e ha la rara capacità - per una commedia e non per un genere che tratta e accarezza sadicamente materia respingente – di sfinire, di provocare una repulsione che è sempre valore positivo qualora inneschi una riflessione o favorisca l'immedesimazione, e al contempo di infondere una positività disarmante quando ci si ritrova spettatori di una purezza di intenti e una pulizia delle azioni mai contemplate nelle menti funzionali degli "eroi" di tutti i giorni.
Punch-Drunk Love frastorna e mette di buon umore senza soluzione di continuità, quanti altri film lo fanno?
di Paolo Falletta
Altro giro, altra corsa
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Ci si sente prossima settimana, ciao!
Interpreta
Difficile andare al di là degli esempi che hai citato ma Super Mario è in parte Minecraft sono giochi che sono nel al di là del videogioco, Uncharted e Assassin Creed sono più da “core gamer” passami il termine, anche Tomb Raider. Insomma non si può dire che sono titoli che “lo sa anche mio nonno”. Al di là poi di cosa ha funzionato nella comunicazione dell’uno e dell’altro.