Quando nasce e cos'è un blockbuster?
È un termine che descrive uno specifico tipo di film che ha iniziato ad essere prodotto dagli anni '80 in poi. Oggi ne vengono fatti tanti
IL FATTO
Quando pensiamo ai blockbuster, ci vengono subito in mente i grandi film americani che fanno un sacco di soldi e che sono spesso costruiti intorno a storie semplici e ripetitive. Eppure, la parola “blockbuster” non nasce per il cinema ma in ambito militare. Durante la Seconda guerra mondiale, il Time usò questo termine per descrivere delle bombe lanciate sull’Italia fascista, capaci di distruggere interi isolati.
All’inizio il termine veniva utilizzato in modo abbastanza sporadico e senza una definizione precisa, forse anche perché il trauma delle bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki era ancora fresco. Solo negli anni ’50 la parola cominciò ad essere associata ai film e a diffondersi sulle pagine delle riviste cinematografiche per parlare, appunto, di quelle opere che costavano tanto e incassavano ancora di più (precisamente, basta che superino cento milioni di dollari per poter definire così un film).
È nel 1975 che si identifica convenzionalmente la data di nascita vera e propria del blockbuster come lo intendiamo oggi. Quell’anno esce al cinema Lo squalo, il film di Steven Spielberg che non solo ha avuto un enorme successo di critica e di pubblico, ma ha cambiato radicalmente il modo in cui i film vengono distribuiti e promossi.
È possibile che non tutti sappiano, dato che il successo del film ha cannibalizzato l’opera iniziale, che Lo Squalo sia tratto da un romanzo. Ecco non è una cosa da sottovalutare perché in realtà la prima operazione di marketing dei produttori Richard Zanuck e David Brown parte da qui.
I due acquistano i diritti del romanzo, e ogni dettaglio legato al libro e al film comincia ad essere orchestrato e diffuso nei media. La Universal, che stava sperimentando nuovi approcci pubblicitari, aveva le idee chiare: bisognava usare il romanzo per alimentare le aspettative sul film, e viceversa.
Iniziarono infatti a spingere il libro tra gli opinion leader dell’editoria e dei media, organizzando interviste in radio, in televisione e nelle librerie di tutto il Paese con lo scrittore Peter Benchley. Adesso è normale che un autore promuova la sua opera in giro e attraverso questi canali di comunicazione, prima non così tanto.
Uno degli elementi chiave per la campagna marketing fu quello di avere un immagine riconoscibile e che rappresentasse il film. Oggi abbiamo tutti in mente lo squalo che sta per attaccare una ragazza che nuota in mare. Ecco, quell’immagine l’ha realizzata l’artista Roger Kastel partendo dall’originale usata per il libro.
Inizialmente lo squalo non aveva denti e la ragazza indossava un costume intero. L’immagine non convinceva i dirigenti Universal e per questo Kastel la modificò aggiungendo i denti allo squalo e spogliando la nuotatrice del costume, ma nascondendone il corpo dietro la tavola da surf. L’immagine era così potente che la Universal decise di usare quella grafica anche per la campagna promozionale del film, creando una continuità visiva tra le due opere.
E funzionò alla grande. Il libro venne venduto in tutto il mondo e le edizioni internazionali si moltiplicarono velocemente. Il titolo stesso, "Jaws", era perfetto in termini di marketing: breve, diretto, facile da ricordare e perfetto per legarsi a tutto il merchandising e ai futuri sequel.
Benchley, pur avendo creato l’universo narrativo, non fu poi del tutto entusiasta delle modifiche che vennero fatte per l’adattamento cinematoragrafico perché aveva fatto un libro in cui lo squalo era solo uno degli elementi della trama, mentre Spielberg volle fare un film semplice, chiaro ed emozionante, incentrato quasi esclusivamente su di esso.

Quando poi iniziarono le riprese del film, la Universal mise in moto una macchina promozionale pazzesca: ogni giorno decine di giornalisti venivano inviati sul set per fare reportage e interviste - ne sono state fatte più di 200 al cast e ai membri della troupe -, uscirono tra i 200.000 e i 300.000 comunicati stampa; tutto questo quando ancora si stava solo girando. Fu il primo caso di hype, in cui un film viene trasformato in un evento mediatico.
Il film uscì il 20 giugno, in estate, periodo che fino ad allora spaventava i produttori ma che invece si rivela essere un momento piuttosto fruttuoso per le sale americane.

Si cerca di puntare ad un pubblico giovane, viene pubblicizzato in modo massiccio in televisione e infine viene distribuito contemporaneamente in oltre 400 sale in tutti gli Stati Uniti.
Anche qui: adesso può sembrare normale che funzioni in questo modo, ma prima de Lo Squalo un film usciva inizialmente in poche sale - di solito le più “lussuose” - e a seconda del successo che aveva, veniva poi distribuito gradualmente in cinema sempre più modesti e spesso in periferia.

Cambia anche e soprattutto il modo in cui i film vengono percepiti: prima le anteprime servivano a ottenere valutazioni positive dai critici per convincere il pubblico ad andare al cinema, ora, con la distribuzione simultanea, gli spettatori vedono il film per la prima volta insieme ai critici e non vengono in alcun modo influenzati dalle loro recensioni. Le persone sono guidate più dalla curiosità generata dalla pubblicità, dal passaparola o dalla voglia di far parte di un evento collettivo, che dai giornalisti.
Il che vuol dire che cambiano anche le esigenze e le aspettative rispetto al film, perché cambia il passaparola: non più dalla critica specializzata al pubblico, ma da spettatore a spettatore.
Vengono realizzati nove spot televisivi da 30 o 60 secondi, pensati per target diversi. Qui comincia a nascere l’idea che uno spot sia molto più influente di una recensione: vengono trasmessi ripetutamente nei giorni prima l’uscita del film e raggiungono oltre 211 milioni di case americane.

Poi ci vuole anche un po’ di “fortuna”: un mese dopo l’uscita del film una ragazza venne davvero ferita da uno squalo al largo della Florida, il che ottenne una risonanza mediatica incredibile. Era impossibile da pianificare, ma l’episodio contribuì a far crescere ulteriormente l’interesse del pubblico.
Dopo il successo negli Stati Uniti, la promozione si spostò a livello internazionale: Zanuck, Brown, Spielberg, e gli attori principali partirono per un tour e andarono in Europa, Asia e Sud America. A novembre del 1975, Lo squalo arrivò in Australia, poi in Giappone e in altre 42 nazioni per Natale.
Il film di Spielberg non è solo un film, è un brand, attorno a cui la Universal costruisce un mercato che va oltre gli incassi al botteghino e che include un merchandising ufficiale, parchi tematici, sequel e molte altre fonti di guadagno. Gli incassi derivanti dal merchandising superano addirittura quelli del box office.

In soli due mesi furono vendute quasi 500.000 t-shirt del film, 2 milioni di tazze e oltre 100.000 altri gadget. Il primo giocattolo a tema squalo uscì nel 1976 e diede il via a una lunga serie di prodotti pensati per i bambini. Vennero persino vendute delle collane con denti di squalo a 290 dollari. Lo scrittore del libro fece una campagna pubblicitaria Rolex con accanto la foto di uno squalo bianco.
Tutto fu travolto dalla Jaws mania: le pubblicità del film erano ovunque, i fumettisti politici cominciarono a raffigurare lo squalo come simbolo di ogni minaccia immaginabile (ma davvero tutte, dall’inflazione al comunismo), ogni attacco di squalo reale finiva per essere associato al film.

Lo squalo cambia anche il modo in cui si valuta il successo di un film. Battendo tutti i record d’incassi nel primo weekend (incassò circa 48 milioni di dollari), il film diede importanza al guadagnare tanto e subito per rientrare immediatamente nei sempre più alti costi di marketing.
IL PUNTO DI VISTA DI INTERPRETA
Questa ipertrofia economica rende i blockbuster anche estremamente delicati: gestire tutte le possibili e complesse dinamiche che tengono insieme questa macchina (im)perfetta è una sfida enorme. Si può cercare di prevedere il successo commerciale di un progetto con queste caratteristiche, ma resta sempre un’operazione imprevedibile e altamente rischiosa.
Prima parlavamo del passaparola. Ecco, un passaparola così “ingovernabile” non è detto prenda le direzioni volute dalla casa di produzione: ci possono essere innumerevoli e imprevedibili fattori capaci di dirottare o meno l’interesse del pubblico verso un film, e oggi, forum, blog e social, danno a tutti la possibilità di esprimere opinioni che, nel bene e nel male, cominciano a influenzare seriamente il successo di un’opera.
È proprio questa fragilità a far sì che i grandi studi cerchino di minimizzare i rischi puntando su formule collaudate, qualcosa che sia facilmente riconoscibile: è molto più facile convincere una comunità di fan già affezionata a vedere un altro capitolo della saga di Avengers piuttosto che qualcosa di completamente nuovo.
Tant’è che i blockbuster hanno consolidato la strategia del franchise, cioè quell’insieme di storie che condividono lo stesso universo narrativo; con il fatto di dover guadagnare da ogni fonte possibile – merchandising, home video, streaming – un film riconoscibile, legato a un brand forte, vende meglio.

Tutto questo, però, è iniziato 50 anni fa, con Lo Squalo.
Naturalmente il contraltare della faccenda è quello di dipendere dai fan del franchise, al punto che gli studi, per evitare che alcune cose possano “disturbare” i fan più accaniti di una saga, organizzano con loro dei focus group per testare i trailer o le anteprime dei film, ed eventualmente modificare i progetti.
Non lo facciamo se no perdiamo il filo, ma qui si aprirebbe l’enorme dibattito sul tentativo degli studi di prevenire tutto quasi per paura delle critiche, anche quando sarebbe più giusto ignorarle. Il cinema va pensato per il pubblico, ma i film non possono essere solo prodotti ben gestiti e gestibili.

I blockbuster, anche se restano un oggetto tutto hollywoodiano, figlio di una logica industriale tipicamente statunitense e del vecchio studio system, hanno insito nella loro forma e nelle loro scelte di linguaggio l’obiettivo di parlare ad un pubblico globale e fatto di persone molto diverse tra loro. Per questo nella maggior parte dei casi vengono utilizzati i generi che hanno un impianto spettacolare più esibito come la fantascienza, l’azione o l’avventura: perché le immagini contano più delle parole e quelle storie diventano in qualche modo universali.
Poi sì, diciamo tutti “è un’americanata”, però sono proprio queste “americanate” - a vedere dall’andamento dei box office - a convincere ancora buona parte del pubblico ad uscire di casa e comprare un biglietto per il cinema.

I maggiori incassi statunitensi degli ultimi anni sono esclusivamente blockbuster, e per di più blockbuster che sono nuovi capitoli di saghe, remake o film legati a marchi già noti. Naturalmente il problema non è che questi film esistano, è la mancanza di alternative.
Queste opere hanno monopolizzato il mercato e l’attenzione del pubblico, ma mancano storie e ambizioni diverse, e si sta ampliando in maniera sempre più marcata la differenza tra gli incassi di questi pochi film annuali - che quando funzionano, raggiungono entrate mastodontiche mai toccate in passato - e il vuoto degli altri film. Questo non è un problema esclusivamente americano: questi risultati si riflettono nei botteghini di tutto il mondo occidentale e laddove le cinematografie nazionali non riescono a competere in termini di incasso, come nel nostro caso, questo divario diventa ancor più evidente.
Veloce Veloce
A proposito di blockbuster e franchise, il secondo capitolo di Joker è stato un disastro al botteghino. Meta ha presentato un nuovo generatore video basato sull'intelligenza artificiale. Ryan Murhpy sta facendo tante, forse troppe, serie tv. Al Pacino se l’è vista brutta durante il COVID. Durante l’anteprima a Cannes di Megalopolis e in alcune sale nordamericane, dei tizi potevano fisicamente andare davanti allo schermo e dialogare con Adam Driver. Il primo trailer del nuovo film su su Bob Dylan con Timothée Chalamet.
Due cose belle e poi ci salutiamo
Familia, di Francesco Costabile
Sono andato a vederlo al cinema e sono uscito travolto dai pensieri. È stato presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia e si è portato a casa anche il premio per la miglior interpretazione maschile per un pazzesco Francesco Gheghi (questo ragazzo farà delle cose, ha solo 21 anni e ha già dato ampia prova della sua bravura in tutta la sua breve filmografia).
È tratto dall'autobiografia Non sarà sempre così di Luigi Celeste, che nel 2008 uccise il padre dopo gli anni di violenze che ha subito e ha visto subire alla madre, ed è un film che graffia: tutto “il primo tempo” è talmente bello da farti superare - almeno a primo impatto - la più scricchiolante seconda parte. È tratto da una storia vera e per questo vi infastidirà, ma è quel fastidio stimolante che merita di essere vissuto. Dovrebbe essere ancora al cinema, correte a vederlo perché ne vale davvero la pena.
Le schegge, di Bret Easton Ellis
È un romanzo di 700 pagine, che è il modo peggiore di consigliare a qualcuno un libro. In realtà il suo pregio più grande è proprio che si divora anche se non siete grandi lettori. È l’ultimo libro di Bret Easton Ellis - che è quello di American Psycho - ed è il suo primo libro dopo 13 anni di inattività. È stato un caso letterario nel 2023, in parte grazie al podcast su Patreon dove Ellis leggeva i capitoli della prima versione non editata del libro. È la storia “vera” dell’autore 17enne che racconta di come un serial killer che uccide, tortura e smembra adolescenti, abbia terribilmente segnato la mente del giovane autore che stava scrivendo il suo primo romanzo: Meno di zero.
O per lo meno, è una presunta storia vera. Le speculazioni si sono perse: i lettori hanno inizato a fare i fact-checking degli eventi e dei personaggi citati, ed Ellis, di volta in volta, ci giocava, correggeva dettagli, ammetteva errori di memoria, contribuendo al “mistero” del libro.
Verrà anche tratta una serie tv di HBO diretta da Luca Guadagnino e dallo stesso Ellis. Ah, e se lo comprate, leggetelo ascoltando le canzoni che cita in continuazione, trovate un sacco di playlist online in cui sono già tutte raggruppate.
Interpreta è tante cose
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Ci sentiamo prossima settimana,
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